Veleno

Il veleno d’ape è secreto da specifiche ghiandole delle api di sesso femminile: le operaie, allo scopo di difendere l’alveare eliminando eventuali aggressori, e la regina, per uccidere le rivali. I fuchi non producono veleno. Quando un’ape punge un essere umano, il pungiglione rimane uncinato nella pelle e l’ape muore, perché nel tentativo di staccarsi si strappa gli intestini. Il veleno d’ape è anche portatore di un messaggio feromonale di allarme, che attiva anche altre api nella difesa dell’alveare. Nell’uomo il veleno d’ape può provocare  reazioni che vanno dal dolore localizzato, seguito da una sensazione di calore e di prurito, fino a delle vere e proprie reazioni allergiche e allo shock anafilattico, uno stato di ipersensibilità che può approdare a una reazione violenta, in rari casi con esiti mortali.
Nonostante questo, il veleno d’ape contiene una molteplicità di sostanze che possono essere usate efficacemente a scopo terapeutico per l’uomo, dopo aver verificato che non sia soggetto ad allergia.

Il veleno d’ape può essere utilizzato stimolando in modo programmato un’ape a pungere in un punto preciso del corpo (10è sufficiente premere l’addome dell’ape per provocare l’estroflessione del pungiglione), oppure raccogliendo il veleno d’ape: si riesce a farlo utilizzando una stimolazione elettrica di 20-30 volt davanti alla porticina d’ingresso dell’ alveare, provocando così nelle api l’estroflessione del pungiglione e la secrezione del veleno, che cristallizza e viene raccolto su una lastra di vetro. In questo caso, avendo perso le sue parti volatili, viene chiamato “apitossina”.
Il veleno d’ape contiene soprattutto  peptidi ed enzimi, ed ha proprietà antinfiammatorie, neurotossiche del sistema nervoso centrale, antipiretiche, analgesiche, cardiotoniche, anticoagulanti, regolatrici della pressione sanguigna. Il suo campo d’applicazione spazia dalle malattie cardiovascolari,a quelle del sistema muscolo-scheletrico, del sistema endocrino, del sistema nervoso e anche in oftalmologia, dermatologia, ginecologia, immunologia e virologia.

Cera

Diversamente da quanto accade per altri tipi di imenotteri che costruiscono i loro nidi con materiali raccolti in natura (10per esempio, sostanze cellulosiche o fango), le api provvedono loro stesse a produrre la cera con la quale edificano le strutture interne dell’alveare, i favi.cera1La cera viene prodotta da ghiandole ciripare localizzate nella pane ventrale dell’addome delle api operaie. Appena secreta si presenta sotto forma di minuscole scagliette incolori. Le operaie costruttrici provvedono a plasmare con le mandibole il materiale per arrivare alla forma voluta. Il lavoro di costruzione dei favi è regolato da meccanismi complessi, lo studio dei quali è oltremodo interessante. In termini di economia metabolica la secrezione di cera è un processo dispendioso: per ogni grammo di cera prodotto ne sono consumati 7-10 di miele.cera2

 

La cera è un materiale dalle caratteristiche ideali per l’uso che deve fare: è solida ma diventa malleabile e plasmabile a temperatura attorno a 35°C (10per poi fondere completamente a 62-65°C).

 

È una sostanza chimicamente stabile, resiste all’idrolisi e all’ossidazione e non si scioglie in acqua. Resiste agli acidi e agli enzimi digestivi della quasi totalità degli animali (10escluse le larve delle tarme della cera e alcuni uccelli). cera3Dal punto di vista chimico è costituita da una miscela complessa di idrocarburi, esteri e acidi grassi. Per completare la sua descrizione dal punto di vista chimico-fisico, si può dire che non si scioglie in alcol a freddo, ma lo fa in alcol bollente e in solventi quali cloroformio, solfuro di carbonio, essenza di trementina e benzolo.

 

Quando è fusa si miscela con le sostanze grasse. Può essere saponificata ed è quindi possibile eliminare le incrostazioni di cera con soda caustica bollente. Ha un peso specifico inferiore all’acqua e per questo vi galleggia sopra.
Fin dai tempi più remoti la raccolta di miele è stata accompagnata da un’analoga raccolta di cera. Per migliaia di anni la cera d’api è stato l’unico materiale del suo genere disponibile ed è stata per questo utilizzata in centinaia di modi diversi. La tecnica moderna, offrendo sostanze con analoghe caratteristiche e simili possibilità d’impiego, ha oggi ristretto enormemente l’uso della cera d’api, limitandolo ai soli casi in cui è veramente insostituibile. Ancora oggi presso le culture che adottano sistemi di apicoltura tradizionale o semi-razionale l’estrazione di miele, per pressatura o fusione dei favi, dà, come sottoprodotto, una discreta quantità di cera. In alcune situazioni questa viene utilizzata in loco per gli usi tradizionali; in altre viene indirizzata all’esportazione verso paesi industrializzati. Nel nostro sistema di apicoltura la produzione di cera, quale sottoprodotto, seppur di valore, dell’estrazione di miele, riguarda gli opercoli che vengono tagliati via dai favi di miele prima di procedere all’estrazione con lo smelatore centrifugo. Questo tipo di produzione è stimata attorno all’1-1,5% del peso del miele prodotto, cioè 1-1,5 kg di cera per ogni quintale di miele. Un altro mezzo chilo per alveare può essere ottenuto dal recupero della cera contenuta nei favi che vengono periodicamente rinnovati. Sia nel caso della cera d’opercolo che in quello del recupero dei vecchi favi è necessario un processo di estrazione che permetta la separazione della cera dal miele o dal resto delle sostanze che compongono il favo (10bozzoli e residui dell’allevamento delle larve). Questi processi si basano sulla fusione della cera a caldo e sulla sua immiscibilità con l’acqua. Uno dei sistemi più razionali e usati nei climi caldi è la sceratrice solare, una cassa vetrata nella quale la cera fonde, per azione del riscaldamento solare, e cola in una vaschetta, dove si stratifica sui residui più densi (10miele). Esistono attrezzature appositamente costruite per la fusione ed estrazione della cera (10caldaie a vapore); molti apicoltori utilizzano invece materiale non specifico, che però risponde ugualmente bene all’uso.
Le tecniche adottate devono tener conto di alcuni particolari, fondamentali per la buona qualità del materiale estratto. La cera non va mai fusa su fuoco diretto: oltre al rischio di incendio, l’elevata temperatura che si sviluppa ne determina un irreparabile danneggiamento. Con un sistema di bagnomana o aggiungendo acqua nello stesso recipiente m cui si fonde la cera, il calore della fiamma viene assorbito e riceduto m modo graduale. I recipienti non devono essere di ferro, rame o zinco in quanto reagirebbero negativamente con la cera fusa. L’acqua che entra in contatto con la cera deve essere il più possibile priva di sali per evitare la saponificazione.candele-cera Il raffreddamento deve avvenire nel modo più lento possibile, per dar tempo alla cera di decantare e separarsi completamente dalle impurità.pani ceraLa quasi totalità della cera cosi prodotta dagli apicoltori italiani finisce nuovamente negli alveari sotto forma di fogli cerei.

 

La qualità del foglio cereo è un particolare importante per la produttività dell’alveare: come primo requisito deve essere di pura cera d’api.
Cera d’api d’importazione copre le richieste nel campo cosmetico, farmaceutico e dei lucidi per mobili, pavimenti e pellami. Soprattutto in campo cosmetico e dermatologico l’impiego della cera d’api è largamente diffuso. Basti pensare al “cerato di Galeno”, un’antichissima formula di pomata protettiva per la pelle a base di cera d’api e acqua di rose, ancora oggi riportata in farmacopee internazionali. Il largo uso nei settori sopra menzionati va collegato alla capacità che la cera d’api ha di formare un film protettivo ma non occlusivo sulla superficie della pelle, oltre che alle sue doti di alta stabilità.